Perché mi ritrovo sempre nelle stesse situazioni?

Quante volte vi siete ritrovati in situazioni simili tra loro o coinvolti in relazioni d’amicizia, sentimentali o di lavoro che richiamavano una situazione passata già vissuta con sfumature emotive spiacevoli? Quante volte vi siete detti  “come mai è successo di nuovo? Pensavo che lui/lei fosse diverso/a e invece…”.

Questa “tendenza” a ritrovarsi in situazioni simili tra loro richiama il concetto di gioco psicologico descritto da Eric Berne (A che gioco giochiamo? 1964), il fondatore dell’Analisi transazionale.  Il termine “gioco” non intende riferirsi ad un divertimento poiché questo non è ciò che si prova bensì si riferisce al fatto che per sussistere le persone coinvolte devono essere almeno due e vi sono delle precise mosse (per lo più inconsapevoli), proprio come nei giochi.

gioco psiIn termini semplici un gioco è uno scambio comunicativo tra due persone più o meno lungo e più o meno intenso che si conclude con una sensazione di disagio. Per entrambi è riscontrabile, prima del disagio, una sensazione che stia per succedere qualcosa di inaspettato tanto da chiedersi “cos’è appena successo? Come ci sono finito/a in questa situazione?”

Le perone si ritrovano quindi a vivere situazioni di conflitto nelle relazioni che assumono la caratteristica della ripetitività: possono cambiare le persone coinvolte, le situazioni e i contesti ma lo schema sembra essere sempre lo stesso. Ciò, secondo Berne, ha lo scopo inconsapevole di ripristinare sensazioni e relazioni passate, in qualche modo centrali nella vita dell’individuo. Esse cioè attivano delle dinamiche che sono funzionali al mantenimento di un certo copione (altro concetto caro all’Analisi Transazionale a cui dedicherò un articolo)  già sperimentato in precedenza come utile per rinforzare comportamenti ed emozioni probabilmente necessari nell’infanzia, ma non più funzionali nel presente.

Riporto un esempio concreto tratto da Stewart & Joines “L’Analisi transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani”

Molly, un’assistente sociale, è nel suo ufficio a parlare con un cliente che è appena entrato. Ha l’aria affranta.

Il cliente dice: «Temo che sia successa una cosa terribile, il mio padrone di casa mi ha buttato fuori e non so dove andare. Non so che fare».

«Oh che brutta situazione» dice Molly con aria afflitta «che posso fare per aiutarti?»

«Non lo so» dice sconsolato il cliente.

«Te lo dirò io» dice Molly «Perché non guardi nel giornale e ti trovi una stanza in affitto in città?»

«Questo è il problema» dice il cliente con aria ancora più afflitta «non ho abbastanza soldi per pagare l’affitto!»

«Beh sono certa che potrei fare in modo di farti avere qualche aiuto per questo»

«Carino da parte tua, ma non voglio la carità da nessuno!» dice il cliente.

«Ah bene, allora che diresti se ti prenotassi un letto all’ostello fino a che non hai qualche altro posto dove andare?»

«Grazie» dice il cliente «ma credo che non riuscirei a stare con tutta quella gente quando mi sento così»

Cade il silenzio mentre Molly si spreme il cervello alla ricerca di nuove idee. Non gliene viene in mente nessuna.

Il cliente tira un lungo sospiro, si alza e accenna ad andarsene. «Beh grazie comunque per aver cercato di aiutarmi», dice con aria tetra e scompare dalla porta.

Molly si chiede «Ma cosa è successo?». Si sente stupita poi non all’altezza e depressa. Dice a se stessa che non è brava ad aiutare gli altri.

Nel frattempo il suo cliente giù in strada si sente indignato e arrabbiato con Molly. Dice a se stesso «Lo sapevo che non poteva essermi d’aiuto, e non lo è stata».

Sia per Molly che per il suo cliente questa scena è una riproposizione di molte altre successe in passato (COPIONE).

Molly offre spesso aiuto e consiglio ai clienti, poi si sente male quando loro non accettano. copione

Anche per il cliente l’esito della scena è familiare. Finisce sempre col rifiutare l’aiuto che gli viene offerto, contemporaneamente sentendosi arrabbiato e abbandonato da chi non lo aiuta.

Molly e il cliente hanno giocato al gioco “Perché non” “Sì ma…” dove Molly con l’intento di essere d’aiuto si è attivata proponendo una lista di consigli, tutti prontamente bocciati dal cliente (“Sì…ma”). Al termine di questa interazione Molly sperimenta fallimento e dispiacere mentre il cliente un senso di solitudine, entrambe sensazioni legate alle loro rispettive storie.

I giochi infatti sono delle modalità comunicative e di interazione attraverso cui portare avanti il proprio copione, ovvero ciò che abbiamo deciso inconsciamente in situazioni difficili, frustranti, dolorose o angoscianti nella nostra infanzia. Probabilmente il cliente di Molly ha imparato nella sua famiglia che l’aiuto di cui lui aveva bisogno non è mai stato soddisfatto ed ha quindi imparato a fare da sé, lasciando comunque in sospeso tale bisogno tanto importante per lui. Lo stesso vale per Molly: possiamo ipotizzare che nella sua famiglia uno dei genitori si mostrasse debole, vittima, in cerca di aiuto per poter stare bene e lei cercava in tutti i modi di soddisfarlo. Ecco quindi che da adulta, proprio come il suo cliente, va alla ricerca (sempre in maniera inconsapevole) di persone che possano essere bisognose in modo da poterle soddisfare e quando non ci riesce sperimenta sensazioni dolorose.

Il tema dei giochi psicologici è affascinante ma anche complesso. Quando, attraverso un lavoro su te stesso, è possibile comprendere quali sono i giochi che tu prediligi, è anche possibile imparare quale sia la loro funzione in modo da trovare vie più funzionali per il soddisfacimento dei bisogni rimasti inascoltati o frustrati nell’infanzia.

Se sei interessato a questo tema dei giochi psicologici, ad ottobre 2016 partirà nelle sedi di Codroipo, Monfalcone e Trieste un ciclo di serate in cui verrà trattato nello specifico anche questo argomento. Per maggiori informazioni clicca qui

A cura della dott.ssa Eleonora Rinaldi 

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